Recentemente, Cathy Lynn Grossman di USA Today ha scritto un articolo sulla zakat musulmana, in cui mi ha citato, definendomi come un “critico dell’islàm”. Ha proseguito poi con un successivo articolo, intitolato: “Un critico mette in dubbio scopi e fini della beneficenza islamica”, in cui discuteva le mie opinioni sulla zakat.
Anche se apprezzo l’iniziativa della Sig.na Grossman, quello che maggiormente qui mi interessa è che la sua risposta è il tipico esempio del problema che ho originariamente sottolineato nel mio articolo “Il lato oscuro della Zakat: la beneficenza islamica nel suo contesto”, per il quale la Sig.na Grossman mi rimprovera aspramente.
Ho scritto: “Sia riguardo a ciò che viene insegnato agli scolari Americani dai loro insegnanti, che riguardo a ciò che viene raccontato agli Americani dai loro Presidenti, oggi concetti specifici unicamente dell’islàm sono quasi sempre “occidentalizzati”. Che sia il risultato di ingenuità, arroganza o vera e propria ipocrisia, questo fenomeno ha provocato errori di comprensione (purtroppo estremamente diffusi), che hanno impedito agli Americani di capire obiettivamente alcune delle più preoccupanti dottrine dell’islàm”.
Mi pare quindi piuttosto paradossale che tutto l’articolo della Sig.na Grossman sia una evidente testimonianza di questo fenomeno. Tanto per cominciare, anche se ho indicato che ai musulmani, in realtà,è vietato destinare la zakat ai non musulmani, la sua frase iniziale cocciutamente descrive la zakat come “una prescrizione ad essere caritatevoli”. Sicuramente una “beneficenza” che discrimina in base alla religione non può certo essere considerata così “caritatevole”, una parola che in un contesto occidentale, denota una beneficenza universale.
La Sig.na Grossman ha pure deciso che i musulmani impegnati nell’attività indicata da quella frase islamica “senza tempo” fi sabil Allah – letteralmente “sulla via di Allah” – possono essere definiti come “chiunque, dai seminaristi, agli imam, ai missionari"; mentre, al contrario, io lo interpreto presumibilmente “come un via di rifornimento di jihadisti violenti”.
D’accodo, opinioni diverse. Ma sfortunatamente quando si tratta del significato della terminologia islamica, né la sua opinione né la mia, valgono molto; quello che conta è esclusivamente sapere come le più autorevoli scuole di giurisprudenza islamica (in particolare le quattro madhahib) hanno interpretato la frase fi sabil Allah. E le deliberazioni giuridiche islamiche in merito affermano chiaramente che fi sabil Allah è un sinonimo del concetto di jihad violenta.
Per esempio, nella sua sezione sulla zakat. l’edizione in Arabo e Inglese del testo legale,‘Umdat as-Salik, traduce fi sabil Allah come “coloro che combattono per Allah”. Nell’indice, vicino alla voce fi sabil Allah, si legge semplicemente “Vedi: jihad”.
A proposito della zakat, il seguente episodio, tratto dalla storia islamica, chiarisce ulteriormente il problema: dopo la morte di Maometto, nel 632, molte tribù Arabe, pur considerandosi ancora musulmane, rifiutarono di pagare la zakat, di cui la maggior parte era usata per finanziare le operazioni militari. Abu Bakr, il primo Califfo “ben guidato”, reagì scatenando le Guerre dell’Apostasia, che costarono la vita di decine di migliaia di Arabi. In questo conteso, né l’uso della zakat, né la brutale risposta di Abu Bakr, sembrano molto “caritatevoli”. (Chi ha mai sentito che si uccidono persone perché non sono state abbastanza “caritatevoli”?)
Come risultato, lo stesso canone della legge islamica (la sharia) che chiaramente vieta ai musulmani di dare la zakat (assitenza economico-finanziaria) ai non musulmani, promuove la sua elargizione a coloro che noi definiamo “jihadisti”. Questo è un semplice dato di fatto, ribadito più e più volte – non una mia opinione, né qualcosa “aperta all’interpretazione”.
Gli interrogativi finali della Sig.na Grossman sono ulteriormente indicativi della diffusa tendenza di ri-modellare concetti musulmani con termini occidentali. Chiede al lettore: “Ritieni che i credenti sostengano coloro che sono ‘sulla via di Allah’ in un senso religioso, così come i Cristiani sostengono i missionari nella diffusione del Vangelo? O lo interpreti come un codice per propositi nefandi?”.
A parte il fatto che – ahimè! ancora una volta! – ciò che ciascuno di noi “pensa” è totalmente irrilevante, queste domande confermano la troppo diffusa incapacità di trascendere le nozioni di bene e male, profondamente radicate nella propria cultura, attribuendo loro una origine universale. Perché, proprio come la sensibilità occidentale della Sig.na Grossman la informa che la zakat, che riguarda elargire del denaro, deve sempre essere “caritatevole”, allo stesso modo queste stesse nozioni la informano che il finanziamento della violenza, jihadista o di altro tipo, deve essere sempre “nefasto”.
Ancora, si potrebbe sorprendere nello scoprire che uomini come Osama bin Laden in realtà considerano la loro jihad – sì, la jihad, con tutta la morte e la distruzione conseguenti – come un atto di altruismo, come un mezzo orribile per uno scopo benefico (vedi Corano 2:216), cioè, l’instaurazione della legge islamica da un capo all’altro del mondo (che è, tra l’altro, un dovere musulmano). Uno dei più rinomati ecclesiastici musulmani, un eroe per i jihadisti odierni, Ibn Taymiyya, ha scritto diffusamente sulla jihad, descrivendo a come la più alta espressione di “amore”. E, comunque, non sembra una scommessa troppo rischiosa ritenere che molti musulmani sarebbero più propensi ad accettare le sue opinioni, cioè le sue “fatwe”, piuttosto che le estemporanee idee della Sig.na Grossman.
La morale? I benpensanti (Americani o Occidentali) farebbero bene a smettere di interpretare antiche dottrine musulmane – dalla jihad alla zakat – secondo le loro conoscenze epistemologiche occidentali, mentre invece dovrebbero basarsi sui classici giudizi della tradizione islamica, come chiaramente formulati dalle sue autorevoli scuole di giurisprudenza. Il che, dopo tutto, è quello che fanno i musulmani.
Post Scriptum: Come spesso accade, ho recentemente trasmesso gran parte di quanto precede alla Sig.na Grossman, e lei ha risposto in un altro articolo, il cui succo è che, solo perché una religione insegna qualcosa, ciò non significa che i suoi fedeli lo mettano in pratica. Scrive:
Non ostante la legge Giudaica sia chiarissima sulle regole dietetiche, molti Ebrei non mangiano cibi kosher. Benché varie confessioni Cristiane chiaramente dicano che Cristo è essenziale per la salvezza, molti ritengono che le persone buone andranno in paradiso, a prescindere dalla loro fede o dalla sua mancanza (il corsivo è mio).
Così, distinguiamo tra gli insegnamenti delle varie religioni (che sono spesso obbiettivi e accertabili) e le pratiche reali di coloro che affermano di seguirli. La tacita supposizione della Sig.na Grossman, pertanto, sembra essere che, anche se la legge islamica prescrive la jihad e la necessità di finanziarla, molti musulmani non lo fanno.
Sfortunatamente, anche se fosse vero, questa convinzione non sembra molto consolante: sono bastati diciannove musulmani per commettere l’orribile impresa dell'11 Settembre!
Raymond Ibrahim è Direttore Associato del Middle East Forum e autore di “The Al Qaeda Reader”, traduzioni di testi religiosi e propagandistici.